Lettera pastorale 2021-2022

«Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero, confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele» (Sof. 3,12)

Carissime/carissimi fedeli della Chiesa di Adria-Rovigo,

in questo periodo, che tradizionalmente segna l’inizio di un nuovo «anno pastorale», desidero indirizzarvi alcuni pensieri che possano aiutarvi a leggere nella fede il momento particolare che stiamo vivendo, in modo da cogliere la chiamata che il Signore ci fa anche attraverso le vicende e le prove di questo ultimo anno e mezzo segnato dalla pandemia per covid-19.

Non vi presento un programma pastorale (ci saranno altre occasioni per proporre orientamenti e iniziative pastorali): mi sembra infatti opportuno, prima di pensare alle cose da fare, cercare di discernere che cosa il Signore dice alla nostra Chiesa nell’ora presente.

Prendo le mosse da un versetto del libro del profeta Sofonia, che mi è capitato di leggere nella liturgia delle ore qualche giorno fa e che ha richiamato con particolare forza la mia attenzione: «Lascerò in mezzo a te un popolo umile e povero, confiderà nel nome del Signore il resto d’Israele» (Sof. 3,12).

Ho sentito queste parole del profeta particolarmente vicine alla situazione che stiamo vivendo. Nel giro di pochi mesi infatti ci siamo ritrovati come comunità cristiana molto più poveri e fragili. In particolare abbiamo dovuto constatare come l’allontanamento, già in atto, delle generazioni più giovani (non solo gli adolescenti, ma anche le famiglie giovani e gli adulti), ha assunto dimensioni che potremmo definire «di massa». Per la grande maggioranza delle famiglie l’unico interesse rimasto verso la Chiesa è costituito dalla celebrazione dei sacramenti dell’iniziazione cristiana, celebrazione però staccata da un percorso, sia pur minimo, di evangelizzazione e catechesi. Anche le iniziative educative per i ragazzi e i giovani sono state ridimensionate dalle misure di prevenzione del contagio, come pure molte altre attività di incontro e di socialità. Tutto questo sembra aver disperso le comunità, provate anche dalla ristrettezza delle risorse umane ed economiche. Questo impoverimento risulta più forte che altrove nella nostra realtà, già da tempo segnata dall’invecchiamento e dallo spopolamento. Le parrocchie, già in sofferenza per la diminuzione della popolazione e in particolare dei giovani e delle nuove famiglie, sono sempre più in difficoltà anche dal punto di vista economico: la stessa gestione ordinaria è diventata problematica in seguito alla diminuzione delle offerte a sua volta legata al venir meno della partecipazione di molti fedeli alle celebrazioni. Le prospettive future quanto al clero sono a dir poco preoccupanti: su 103 sacerdoti incardinati in Diocesi, 39 sono oltre i 75, altri 39 tra i 50 e i 75 anni, solo 24 sotto i 50 anni. La crisi vocazionale, che ormai appare generalizzata in tutto l’Occidente, non risparmia il nostro Seminario: anche quest’anno, come nei due precedenti, non abbiamo nuovi ingressi. Ciò significa che dobbiamo prepararci ad una chiesa con pochissimi preti, costretta, di conseguenza a ripensare il servizio dei presbiteri con scelte inevitabilmente dolorose.

 

Il messaggio del Profeta in un tempo di delusione e scoraggiamento

 

Questa situazione presenta molte analogie con quanto stava vivendo il popolo ebreo al tempo del profeta Sofonia: anche allora il popolo si ritrovò debole e fragile, ma con l’aiuto del messaggio profetico riuscì a dare una risposta di fede andando oltre allo smarrimento e allo scoraggiamento. Il passo citato si inserisce nel solco della teologia e della spiritualità del piccolo «resto di Israele», un’idea maturata in tempi in cui tutto faceva supporre che il disegno salvifico del Signore per il suo popolo Israele (le promesse giurate solennemente ad Abramo e a Davide), si fossero arenate.

La teologia del «piccolo resto», già presente nel periodo precedente, si sviluppò però nel tempo successivo all’esilio babilonese. Bisogna tener presente che l’esilio è stato un evento devastante e traumatico per il popolo di Israele: Gerusalemme, la città santa, era stata distrutta dalle truppe di Nabucodonosor, il tempio saccheggiato e dato alle fiamme, i sacerdoti deportati così come il re e i principali rappresentanti del popolo. Ormai le liturgie di un tempo erano rimaste un sogno nostalgico confinato nel passato. Così si esprime l’orante del Salmo 42, identificato dagli studiosi con un ebreo esiliato, probabilmente un levita (addetto alla liturgia del tempio):

Questo io ricordo
e l’anima mia si strugge:
avanzavo tra la folla,
la precedevo fino alla casa di Dio,
fra canti di gioia e di lode
di una moltitudine in festa (Sal 42,5).

 

Quando Ciro re di Persia conquistò Babilonia e diede alle popolazioni deportate la possibilità di ritornare in patria, anche gli israeliti che erano stati deportati ebbero il permesso di rimpatriare e di ricostruire il tempo di Gerusalemme. Alcuni di loro si misero in viaggio per tornare nella terra di Israele. Non tutti gli esiliati però fecero ritorno in patria, c’era infatti qualcuno che in terra d’esilio in fondo si era piazzato molto bene. Già il primo Isaia (Is capp.1-39) aveva prospettato che del popolo non sarebbe rimasto che un resto e che il ritorno in patria sarebbe stata la conseguenza del ritorno al Signore:

Tornerà il resto,
il resto di Giacobbe, al Dio forte.
Poiché anche se il tuo popolo, o Israele,
fosse come la sabbia del mare,
solo un suo resto ritornerà
(Is 10,21-22).

 

E’ utile ricordare che ad Abramo (cf. Gen 13,16) era stata indirizzata la promessa di una discendenza numerosa e incalcolabile come la polvere della terra. Ritrovarsi in pochi quindi sembrava essere una smentita a tale promessa. Per questo le tradizioni su Abramo vennero rilette, rielaborate e attualizzate in epoca esilica, per ridare una nuova speranza ai deportati. Così il Deutero-Isaia (Is capp. 40-55), il grande profeta dell’esilio, invitava gli esiliati a guardare ad Abramo che era partito proprio da quel luogo nel quale tutto sembrava essere finito: «Se siamo andati a finire dove tutto ha avuto inizio, allora tutto potrà ricominciare proprio da qui». Questo era il ragionamento del Deutero-Isaia, profeta della speranza:

Guardate alla roccia da cui siete stati tagliati,
alla cava da cui siete stati estratti.
Guardate ad Abramo, vostro padre,
a Sara che vi ha partorito;
poiché io chiamai lui solo,
lo benedissi e lo moltiplicai
(Is 51,1-2).

 

La storia della salvezza ha avuto inizio da una sola coppia, anziana e per di più sterile. Questo dato biblico è per la Chiesa odierna – che non è più quella dei grandi numeri – motivo di incoraggiamento e di speranza. Anche il Vangelo del Regno si è propagato per il mondo a partire da un piccolo gruppo di discepoli del Signore.

E’ in questo contesto che possiamo comprendere il passo di Sofonia 3,12:

Lascerò in mezzo a te
un popolo umile e povero».
Confiderà nel nome del Signore
il resto d’Israele
(Sof 3,12-13).

 

Il Signore promette che lascerà in mezzo agli israeliti «un popolo umile e povero»: non una una realtà sconfinata, secondo la promessa fatta ad Abramo, eppure il Signore non cessa di chiamarlo «popolo». Come sappiamo la categoria biblica del «popolo di Dio» è stata ripresa dal Concilio Vaticano II in poi per designare la Chiesa in tutti i suoi membri.

Questo popolo sarà «umile», in ebraico anaw, il cui plurale è il famoso termine anawîm, cioè i «poveri», i «miseri» coloro che, come avviene spesso nei Salmi, sono spesso accusati ingiustamente dagli empi, che sono invece gente ricca, facoltosa, superba e arrogante. I poveri, dato che non hanno soldi per pagarsi un avvocato, si rifugiavano nel Tempio del Signore chiedendo asilo. Dopo aver passato una notte nel tempio al mattino ricevevano il verdetto dal Signore che (per mezzo dei sacerdoti), li dichiarava innocenti. Ecco allora che da categoria economico-sociologica gli anawîm diventarono una categoria religiosa, designando coloro che non hanno altro aiuto che Dio e che confidano solo e unicamente in lui. Costoro possono essere detti «umili» perché, non confidando nelle proprie forze e nella propria potenza e riconoscendo pienamente i loro limiti e la loro miseria, si rimettono nelle mani del Signore.

Questo popolo sarà anche economicamente «povero», non potrà fare affidamento su grandi risorse ma ancora una volta, questo lato «debole» diventa un punto di forza, perché per questi poveri l’unica risorsa è Colui che viene chiamato il «Potente di Giacobbe» (Gen 49,24).

Va da sé che questo popolo umile e povero «confiderà nel nome del Signore», un nome che era stato rivelato a Mosè nel contesto della liberazione del popolo dalla schiavitù d’Egitto, evento base da cui nasce Israele come «popolo di YHWH».

Queste considerazioni ci spiegano perché nel passo di Sofonia compaia l’espressione «resto di Israele». E’ significativo ricordare che quando Paolo nella Lettera ai Romani si chiede con sua intima e grande sofferenza perché i suoi connazionali, consanguinei secondo la carne, non hanno accolto Cristo Gesù, risponda dichiarando che in realtà un «resto» di Israele ha aderito al messaggio evangelico e ha realizzato in se stesso tutte le promesse fatte ai padri:

E quanto a Israele, Isaia esclama:
Se anche il numero dei figli d’Israele
fosse come la sabbia del mare,
solo il resto sarà salvato.

Così anche nel tempo presente vi è un resto,

secondo una scelta fatta per grazia (Rm 9,27; 11,5).

 

La logica del «piccolo resto» è presente anche nei Vangeli: è la logica del semino di senape e del lievito delle parabole. Da una misura esigua proviene una quantità sovrabbondante, da un inizio umile, insignificante, non appariscente, irrilevante, deriva un effetto grandioso. Questa è la logica del Regno ed è anche la logica che dovrebbe animare la Chiesa intera, piccolo pugno di lievito nascosto nella massa dell’umanità.

 

Superare la paura con una presa di coscienza lucida e coraggiosa della realtà

 

Accettare di essere un «popolo umile e povero» entrando nella logica del «piccolo resto» ci permette di superare la paura. La perdita delle sicurezze genera anche nella chiesa paura e angoscia, specie nei preti e nei laici più vicini e impegnati: quale futuro per la nostra chiesa? che cosa resterà di quanto abbiamo costruito con tanta fatica e tanto impegno? Avere paura è in una certa misura fisiologico, soprattutto nei cambiamenti d’epoca come quello che stiamo vivendo. Non possiamo però restare nella paura: abbiamo bisogno di contrastarla e di attraversarla, perché la paura semplicemente ci paralizza e ci fa morire.

Un modo di reagire alla paura è quello di giudicare la situazione presente alla luce di quella del passato: è facile che questo confronto porti a concludere che le epoche passate erano migliori di quella attuale. E’ evidente che questa soluzione è insufficiente, perché non fa altro che aumentare la delusione e alimenta la nostalgia di ciò che non può tornare. Non solo, questo atteggiamento può portarci alla chiusura e al rifiuto del confronto con il mondo e la cultura contemporanea, rendendoci difficile il dialogo con gli uomini e le donne con cui condividiamo il lavoro, il tempo libero, le attività sociali.

Per reagire in modo costruttivo dobbiamo andare oltre il pur comprensibile senso di smarrimento e prendere atto, in modo lucido e coraggioso della situazione, chiedendoci che cosa dobbiamo fare per essere fedeli al Signore Gesù e al suo Vangelo qui e ora. Per vincere la paura del futuro che attende la nostra chiesa, in altri termini, abbiamo bisogno di cambiare il nostro punto di vista e di tornare all’inizio e al fondamento. Come il «piccolo resto», di cui parla Sofonia, è invitato a tornare là dove tutto è iniziato, anche noi dobbiamo tornare all’esperienza da cui tutto è cominciato, la prima comunità cristiana, la comunità degli apostoli. Come loro dobbiamo preoccuparci di vivere il Vangelo in modo da poterlo annunciare agli uomini e donne che incontriamo sulla nostra strada.

Vorrei farvi notare come la paura nasca da uno sguardo tutto concentrato su di noi. Invece, se cambiamo il punto di vista e guardiamo fuori al mondo che attende di ricevere la testimonianza del Vangelo, possiamo ritrovare la serenità e il coraggio: la paura viene superata quando la comunità cristiana cerca le sue sicurezze non tanto in se stessa ma nella fedeltà al suo Signore. E’ la chiesa «in uscita», che Papa Francesco non si stanca di indicarci, una chiesa che, accettando la sua povertà, si rivolge alla società non tanto per chiedere ma per dare. Dobbiamo imparare a vivere come «piccolo resto» così riusciremo anche ad «addomesticare» la paura.

A questo punto ci può essere di aiuto un’altra immagine biblica, quella della traversata del lago di Tiberiade (cf. Mc. 4,35-41), dove la paura dei discepoli per il grave pericolo legato alla tempesta è accentuata dal sonno di Gesù, Possiamo interpretare il tempo che viviamo come una traversata: la sensazione di smarrimento e di pericolo che proviamo come comunità cristiana deriva proprio da questo transitare verso un’altra riva, che ancora non conosciamo. Come per i discepoli la paura verrà superata quando scopriremo che il Signore Gesù è con noi in questa traversata e ci chiede di credere ancora di più in Lui e nella sua Parola. Mi sembra utile a questo punto riportare una citazione di un testo scritto da Joseph Ratzinger, poi Papa Benedetto XVI, una cinquantina di anni fa in cui descrive la chiesa del futuro: «Anche questa volta dalla crisi di oggi verrà fuori una chiesa che avrà perduto molto. Essa diventerà più piccola, dovrà ricominciare tutto da capo. Essa non potrà più riempire molti degli edifici che aveva eretto nel periodo della congiuntura alta. Essa, oltre che perdere degli aderenti numericamente, perderà anche molti dei suoi privilegi nella società. Essa si presenterà in modo molto più accentuato di un tempo come la comunità della libera volontà, cui si può accedere solo per il tramite di una decisione. Essa come piccola comunità solleciterà molto più fortemente l’iniziativa dei singoli. (…) Ma nonostante tutti questi cambiamenti che si possono presumere, la chiesa troverà di nuovo e con tutta l’energia ciò che le è essenziale, ciò che è sempre stato il suo centro: la fede nel Dio unitrino, in Gesù Cristo il Figlio di Dio fattosi uomo, nell’assistenza dello Spirito, che durerà fino alla fine. (…) Uscirà da una chiesa interiorizzata e semplificata una grande forza. Gli uomini infatti saranno indicibilmente solitari in un mondo totalmente pianificato. Essi scopriranno allora la piccola comunità e i credenti come qualcosa di totalmente nuovo. Come una speranza che li riguarda, come una risposta a domande che essi da sempre si sono poste. A me sembra certo che si stanno preparando per la chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena cominciata. Si devono fare i conti con grandi sommovimenti. Ma io sono certo di ciò che rimarrà alla fine: […] la chiesa della fede. Certo essa non sarà mai più la forza dominante della società, nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà agli uomini come la patria, che ad essi dà vita e speranza oltre la morte» (I. Ratzinger, Fede e futuro, Queriniana, Brescia 2005, 112-117).

 

Un tempo di «rinascita»

 

Mi avvio alla conclusione, sottolineando che il tempo che ci sta davanti non può essere soltanto tempo di ripresa con il ritorno ad una tanto agognata normalità della vita comunitaria, ma deve diventare l’occasione per una rinascita. In altri termini non dobbiamo limitarci a guardare solo quello che eravamo e che facevamo prima del febbraio 2020, ma dobbiamo avere uno «sguardo prospettico», capace di guardare avanti e di esercitare una progettualità che incroci le domande di senso che l’esperienza dura e sofferta di questi mesi ha suscitato in tante persone.

Fondamentale è prendere coscienza che non basta più conservare e riproporre quanto abbiamo fatto finora. Il mondo attorno a noi è cambiato molto velocemente e cambierà ancora: lo constatiamo vedendo come si comportano le persone, ascoltando i loro discorsi. Guardare avanti esige che sappiamo vedere e ascoltare la realtà per non rimanere chiusi nelle nostre abitudini ed entrare in dialogo con il vissuto delle persone. Dobbiamo pertanto metterci in ascolto: in ascolto non solo tra di noi all’interno delle nostre comunità, ma anche di quanti sono ai margini, non partecipano alle nostre celebrazioni e alle nostre attività. Solo attraverso un ascolto umile e paziente, potremo imparare a dire loro il Vangelo.

Ci è di aiuto in questo sforzo di guardare in avanti, il percorso che Papa Francesco chiede in questo anno pastorale a tutta la Chiesa e in particolare alla chiesa italiana. Come avete senz’altro già sentito, su impulso di Papa Francesco, la Chiesa italiana a partire da questo autunno inizia un «cammino sinodale». Questo cammino proprio della Chiesa italiana si incrocia con la consultazione di tutte le chiese locali del mondo in vista del Sinodo dei Vescovi sul tema «Per una chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione».

Questa espressione, «cammino sinodale» probabilmente ai più non dice molto. La parola «sinodo» e l’aggettivo «sinodale» derivano dal greco e significano «fare strada insieme», «camminare insieme» e richiamano una dimensione costitutiva della vita ecclesiale: la Chiesa, infatti, è il «popolo di Dio», in cui tutti i battezzati hanno ricevuto lo Spirito Santo e possono contribuire a cercare la strada che lo Spirito indica alla sua Chiesa. Per questo la prima preoccupazione del nostro «cammino sinodale» sarà l’ascolto: ascolto innanzitutto dello Spirito Santo, che ci parla attraverso la voce dei nostri fratelli e sorelle. Le modalità e le tematiche concrete verranno indicate prossimamente dalla Segreteria del Sinodo dei Vescovi e dalla Conferenza Episcopale: mi sembra importante che cominciamo a fare nostra questa proposta, sentendola come un’occasione per ritrovarci e superare la dispersione in cui a motivo della pandemia rischiamo di smarrirci.

Siamo un «popolo umile e povero» ma, se confidiamo nel Signore, lui si servirà di noi per portare avanti il suo disegno di salvezza per l’umanità, così come ha fatto con i poveri di Israele, tra i quali emerge la figura di Maria, l’«umile serva del Signore». A Lei affidiamo la nostra Chiesa e il suo cammino perché anche questo tempo difficile diventi un tempo di grazia.

Rovigo, 8 settembre 2021, Festa della Natività di Maria

 

+Pierantonio Vescovo