CATECHESI IN PREPARAZIONE ALLA FESTA DI SAN BELLINO

Questo è l’importante: chiedere al Signore la sua presenza a ogni passo del nostro cammino
23-11-2020

Nel buio della paura accendere la scintilla della fede

«Andrà tutto bene»: ricordate questa frase nelle prime settimane della prima ondata dell’epidemia? Era un augurio e un modo per farsi coraggio: oggi non la ripeteremo più, disillusi come siamo dalla fatica di questi mesi che sembrano non passare più. E’ fatica coltivare la fiducia e la speranza, attanagliati come siamo dalla paura di quello che sta accadendo e che potrebbe accadere anche a noi. Qualche giorno fa una persona mi confidava che da quando è scoppiata la pandemia è tormentato dalla paura della morte, una paura che si è trasformata in una vera e propria depressione. Siamo immersi nel buio della paura e il clima ormai invernale non ci aiuta a reagire. Abbiamo bisogno di un po’ di luce per guardare avanti. Nel buio della paura noi cristiani possiamo accendere la scintilla della fede.

Ma cosa significa credere in questo tempo di pandemia?

La prima tentazione che dobbiamo superare è quella di pensare a un Dio che ci libera dai mali che ci affliggono in un modo prodigioso, sospendendo le leggi della natura. Se coltiviamo questa idea della fede, saremo ben presto delusi, perché Dio sembra rimanere in silenzio di fronte alle nostre tribolazioni. Per accendere la scintilla della fede dobbiamo prima di tutto purificare l’idea che abbiamo di Dio e per fare questo non abbiamo altra strada che ripercorrere la via che ci ha aperto Gesù di Nazareth.

Spesso noi pensiamo alla fede in termini molto generici, a partire dall’esperienza comune a tutti gli uomini. Se vogliamo capire che cosa vuol dire veramente credere, abbiamo però una via sicura: abbiamo la possibilità di confrontarci con l’esperienza di Gesù. Egli ci mostra una via diversa per arrivare a Dio. Non è la via del miracolo: certo Egli ha fatto dei «segni» per attestare la sua identità di Figlio di Dio, ma Dio non è intervenuto per salvarlo dalla morte in croce. Eppure Gesù ha creduto e la sua fede lo ha salvato: egli si è affidato («consegnato»).

Lo scandalo per la nostra fede è la presenza del male. Una prima soluzione è pensare che il male esiste perché ci siamo meritato questo castigo: lo abbiamo sentito affermare anche durante questa epidemia. È una risposta che è al di fuori della fede cristiana perché Dio non può essere all’origine del male. Ma allora, se il male non viene da Dio, perché Dio permette il male? A questa domanda sono state date molte risposte: ne cito solo due. Dio permette il male, perché vuole metterci alla prova e far crescere la nostra fede in Lui. Questa risposta però non tiene conto che nella prova noi potremmo soccombere. Non per niente nel Padre nostro preghiamo «Non abbandonarci alla tentazione» (è significativo che sia stata abbandonata l’espressione «non indurci in tentazione»). Un’altra soluzione è quella di chi pensa che di fronte al male Dio si ritrae per lasciare a noi esseri umani la nostra responsabilità. Un Dio che non interviene però ci fa pensare che né il bene né il male sono in relazione con Lui e quindi avremmo a che fare con un Dio indifferente, inutile, di cui possiamo fare volentieri a meno.

La posizione più corretta è quella di rinunciare a dare una risposta: può sembrare una soluzione deludente, ma è l’unico modo per evitare di rinchiudere Dio dentro schemi che impediscono la sua imperscrutabile identità. E’ questa la posizione di Giobbe, che dopo essersi chiesto il perché di quanto gli era capitato, alla fine rinuncia ad una spiegazione e si ferma sulla soglia del mistero, lasciandosi condurre da Lui. E’ soprattutto la via seguita da Gesù, che dall’alto della croce si affida al Padre e ci mostra così il volto di un Dio che si immerge nelle vicende dolorose degli uomini per aprirli alla speranza della vittoria sul male.

Credere nel tempo della pandemia allora è seguire Gesù accogliendo il dolore, la sofferenza e perfino la morte come una via di salvezza in cui si rivela la potenza di Dio. La scintilla della fede si accende allora dentro il buio della paura, quando ci consegniamo alla notte oscura e troviamo il coraggio di immergerci in quelle tenebre Come non mai la fede in questo tempo non è qualcosa di ostentato, ma un’esperienza nascosta nel profondo dei cuori, che si esprime nella preghiera, dialogo intimo e personale con Dio. Non c’è fede senza l’esperienza della preghiera e la preghiera umile e fiduciosa è la medicina che ci fa guarire dalla paura. Ne ha trattato proprio qualche giorno fa Papa Francesco nella catechesi del mercoledì: «La preghiera sa ammansire l’inquietudine: ma, noi siamo inquieti, sempre vogliamo le cose prima di chiederle e le vogliamo subito. Questa inquietudine ci fa male, e la preghiera sa ammansire l’inquietudine, sa trasformarla in disponibilità. Quando sono inquieto, prego e la preghiera mi apre il cuore e mi fa disponibile alla volontà di Dio. La Vergine Maria, in quei pochi istanti dell’Annunciazione, ha saputo respingere la paura, pur presagendo che il suo “sì” le avrebbe procurato delle prove molto dure. Se nella preghiera comprendiamo che ogni giorno donato da Dio è una chiamata, allora allarghiamo il cuore e accogliamo tutto. Si impara a dire: “Quello che Tu vuoi, Signore. Promettimi solo che sarai presente ad ogni passo del mio cammino”. Questo è l’importante: chiedere al Signore la sua presenza a ogni passo del nostro cammino: che non ci lasci soli, che non ci abbandoni nella tentazione, che non ci abbandoni nei momenti brutti. Quel finale del Padre Nostro è così: la grazia che Gesù stesso ci ha insegnato di chiedere al Signore».

Ci è di esempio Maria, Madre del Signore e Madre nostra: pregando Lei ha saputo affidarsi a Dio. In questo abbandono a Dio e alla sua volontà ha sperimentato la bellezza dei suoi doni. Anche il nostro Santo Patrono, il Vescovo bellino, ha coltivato ha nutrito la sua fede con la preghiera e ha affrontato le fatiche e le difficoltà suo tempo.

Anche noi abbiamo bisogno di pregare per non lasciarci schiacciare dalla paura e dall’angoscia: oltre ai farmaci per combattere il covid ci serve il farmaco spirituale che è la preghiera. Solo la preghiera infatti accende in noi la scintilla della fede che illumina il buio della paura.


Dalla divisione alla fraternità

 «Siamo tutti sulla stessa barca». Abbiamo ripetuto spesso questa frase a partire dalla fine di febbraio, quando siamo stati colpiti inaspettatamente dalla pandemia. Più passa il tempo e soprattutto in quest’ultimo periodo di fronte al flagello di una seconda ondata di contagio ci rendiamo conto che non è facile comportarsi di conseguenza: essere sulla stessa barca infatti comporta remare tutti nella stessa direzione e ci rendiamo conto che non è affatto facile. Ogni giorno di più infatti facciamo il conto con comportamenti conflittuali e con opinioni divergenti che dividono e frammentano la società, indebolendo la lotta al virus e bloccano i tentativi di riprendere un minimo di normalità anche in campo sociale ed economico. Proprio nel momento più difficile abbiamo l’impressione di vivere in una vera e propria “babele” dove non si sa a chi dare retta con il pericolo che si vada verso una guerra di tutti contro tutti. Al «ci salviamo tutti insieme» si sostituisce il «si salvi chi può».

La fede, di cui abbiamo parlato nella precedente catechesi, è una grande risorsa per affrontare questa situazione: non solo sul piano personale, ma anche nella dimensione sociale. Chi crede in Dio ha una riserva di fiducia che gli permette di andare oltre le delusioni e le incomprensioni: sapere di non essere soli ma di avere una promessa di salvezza che viene da Dio dà “ali di aquila”.

La fiducia è come il collante che tiene unita una società umana: è ciò di cui abbiamo più bisogno per rimanere uniti e per lottare insieme. La convivenza sociale è infatti fondata sulla fiducia. Il nostro vivere insieme con altri uomini presuppone la fiducia: anche le forme più semplici della vita sociale, come l’incontro con gli altri per strada, in un negozio, nei mezzi di trasporto richiede fiducia. A un livello superiore c’è bisogno di fiducia quando abbiamo a che fare con le istituzioni da cui dipende il bene pubblico, la cura della salute, la tutela dei nostri beni, ecc. Si crea così un clima comune che esprime il livello di fiducia presente in una società: questo clima non dipende solo da eventi esterni, dipende anche dal grado di fiducia dei cittadini gli uni verso gli altri e di tutti nei confronti di ognuno. Possiamo dire che la fiducia si sviluppa per l’azione convergente dall’alto (le istituzioni, i leader, ecc.) e dal basso (i cittadini con le loro convinzioni e i loro valori). Nella crisi di «fiducia» che la pandemia ha evidenziato e accentuato, il Vangelo può risuonare in modo positivo promuovendo la ricomposizione e la riconciliazione e rendendo possibile pensare un futuro comune. La fede cristiana infatti genera la speranza, che è l’espressione più alta, più radicale della fiducia. La speranza infatti è fiducia nella promessa di Dio contro ogni apparenza contraria: come dice Paolo nella lettera ai Romani, in riferimento ad Abramo, è «speranza contro ogni speranza». E’ la fede in Dio infatti che ci consente di sperare anche quando le nostre possibilità umane appaiono come morte.

La presenza nella società di cristiani, che ispirano la loro vita al Vangelo, può far crescere quel clima di fiducia di cui la società ha così tanto bisogno per uscire da questa crisi devastante. Può essere utile qualche esempio a proposito di questa «presenza evangelica» nella società. Penso innanzitutto ad uno stile di pensiero e di azione che non esclude, che è attento al bene comune prima che a quello individuale o di gruppo, che dà la priorità a ciò che unisce rispetto ai motivi di contrapposizione e di polemica.

Questa presenza agisce dall’interno, come il lievito che fermenta la pasta: lo stile evangelico infatti trova risposta e adesione in tutti coloro che credono nella vita e desiderano impegnarsi per difenderla e promuoverla.

Dobbiamo credere nell’efficacia di questa presenza: non è scontato, proprio perché si tratta di una presenza nascosta, che non si traduce nell’esercizio del potere o di un’egemonia culturale. Può sembrare che i cristiani siano irrilevanti nella società di oggi e per questo rischiamo di essere demotivati e rassegnati.

Ricordiamoci che portare nella società il lievito della fiducia radicale che è la speranza cristiana è un elemento decisivo. In questo tempo la fede dei cristiani può e deve diventare il “motore” che avvia e rende perseverante lo sforzo di tutti gli uomini di buona volontà per lottare contro la pandemia e le sue conseguenze.


Guarire il mondo

 «L’evoluzione della pandemia dipende da noi» Anche questa è una frase che viene ripetuta spesso in questo tempo. Vediamo che è un’affermazione vera: quando affolliamo le piazze e i ritrovi dei nostri paesi e città il contagio aumenta, quando invece ce ne stiamo confinati in casa il contagio scende. Se questo è vero allora possiamo dire che dipende da noi guarire il mondo. «Guarire il mondo» è il titolo che Papa Francesco ha dato ad una serie di nove catechesi tenute nei mesi di agosto, settembre e ottobre per mostrare come la pandemia ci provochi a una conversione profonda che vada a toccare la radici del male che ha colpito l’umanità.

Perché «guarire il mondo»? La nostra preoccupazione non è guarire dal virus covid-19?

L’espressione «guarire il mondo» non è solo un espediente letterario ma vuole portarci alla radice dei problemi del mondo di oggi, smascherando l’illusione che risolta l’epidemia possiamo tornare a vivere nella normalità. La pandemia infatti ha fatto emergere i mali di un mondo che già prima non era sano, anzi quanto è accaduto nell’ambito sanitario è manifestazione di un male profondo che nasce nel cuore dell’uomo e che crea strutture sociali, economiche e politiche distorte che rovinano sia la vita dell’umanità che quella del creato. Molti studiosi hanno messo in relazione l’origine della pandemia con lo sfruttamento della natura: fenomeni come i cambiamenti climatici, la deforestazione, lo sfruttamento intensivo delle risorse naturali hanno quantomeno creato le condizioni favorevoli perché il covid.19 operasse il salto dall’animale all’uomo e si diffondesse in tutto il mondo. In altri termini tutto è connesso, come insegna l’Enciclica Laudato Sì la cui attualità è emersa in modo molto forte in questi mesi: la cura della persona, la cura del creato, la giustizia sociale sono interdipendenti. Limitarsi a combattere il virus, allora, non è sufficiente: occorre andare alle radici del male, decidendo di cambiare quei comportamenti che sviluppano e conservano le strutture distorte in campo economico, sociale e politico. Cito qui un passo di una delle catechesi citate di Papa Francesco (19 agosto 2019): «La risposta alla pandemia è quindi duplice. Da un lato, è indispensabile trovare la cura per un virus piccolo ma tremendo, che mette in ginocchio il mondo intero. Dall’altro, dobbiamo curare un grande virus, quello dell’ingiustizia sociale, della disuguaglianza di opportunità, della emarginazione e della mancanza di protezione dei più deboli».

Questi discorsi ci possono spaventare: che cosa posso fare io per incidere su problemi di questa vastità? Una risposta a questa domanda ci viene anche dall’esperienza di questi mesi. Anche di fronte all’epidemia ci siamo posti la domanda: che cosa posso fare io per contribuire a sconfiggere questo virus (il «piccolo virus»)? La prima risposta è negativa: sono impotente, non posso fare nulla, ma poi ci siamo accorti che nella lotta all’epidemia è determinante il contributo di ognuno. Ognuno di noi è decisivo in questa battaglia, con azioni semplici (portare la mascherina, mantenere il distanziamento, lavarsi le mani). Questo vale anche per gli altri mali del mondo («il grande virus»): ad esempio per combattere lo sfruttamento della natura sono decisive le mie scelte nel fare gli acquisti, nel decidere come e con che cosa viaggiare, ecc.

La grande prova in cui siamo tutti coinvolti può diventare una scossa salutare per spingerci a guarire un mondo malato. In questo compito ci guida l’esempio di Gesù, il medico «integrale», come spiega Papa Francesco nella catechesi citata poco fa: «Con l’esempio di Gesù, il medico dell’amore divino integrale, cioè della guarigione fisica, sociale e spirituale (cfr Gv 5,6-9) – come era la guarigione che faceva Gesù –, dobbiamo agire ora, per guarire le epidemie provocate da piccoli virus invisibili, e per guarire quelle provocate dalle grandi e visibili ingiustizie sociali. Propongo che ciò venga fatto a partire dall’amore di Dio, ponendo le periferie al centro e gli ultimi al primo posto. Non dimenticare quel parametro sul quale saremo giudicati, Matteo, capitolo 25. Mettiamolo in pratica in questa ripresa dall’epidemia. E a partire da questo amore concreto, ancorato alla speranza e fondato nella fede, un mondo più sano sarà possibile. Al contrario, usciremo peggio dalla crisi. Che il Signore ci aiuti, ci dia la forza per uscire migliori, rispondendo alle necessità del mondo di oggi».

San Bellino, che come Vescovo si preoccupò di affrontare i mali della società del suo tempo (le lotte intestine tra i potenti della città di Padova, lo sfruttamento dei servi della gleba, la prevaricazione del potere temporale sui legittimi diritti della Chiesa) interceda per noi perché anche la nostra comunità cristiana si spenda con generosità nell’impegno di «guarire il mondo».