Carissimi Confratelli,
è provvidenziale svolgere qui a Gorizia questa seduta del Consiglio Episcopale Permanente della CEI. Ci consente di riflettere insieme sui drammatici segni dei tempi che tanto ci inquietano, facendo memoria del nostro passato perché, purificata e illuminata dalla Parola di Dio, sappiamo trarne sapienza e visione. Anzitutto un caro saluto e un ringraziamento a Mons. Carlo Roberto Maria Redaelli, Arcivescovo di Gorizia. È stato lui a volere che il nostro Consiglio straordinariamente si svolgesse in questa città e in questa Chiesa, così ricca di storia e di tradizione e che dal 1752, insieme alla Chiesa sorella di Udine, ha raccolto l’eredità spirituale del Patriarcato di Aquileia. San Giovanni Paolo II, nella sua visita pastorale nel 1992, ricordò che, “posta all’incrocio di molteplici popoli e tradizioni, Gorizia ha la singolare vocazione di essere segno visibile di unità e di dialogo” (Omelia, 2 maggio 1992). Una missione che resta attuale anche oggi e ha molto da suggerirci. Grazie di cuore.
Gorizia e Nova Gorica sono unite come Capitale Europea della Cultura 2025, prima capitale transfrontaliera. È una scelta che si colloca in un cammino di riconciliazione e di comune impegno a servizio della pace che le Chiese di Gorizia e Koper, ormai da tanti decenni, stanno vivendo insieme e che ci verrà testimoniato nella Veglia di preghiera per la pace che vivremo domani sera.
Gorizia, prima di diventare italiana a seguito della Prima Guerra mondiale, è stata per quattro secoli territorio dell’impero austriaco. Queste terre sono state un punto di congiunzione tra le culture romanze, germaniche slave: luogo di confronto e d’intreccio come avviene in tante regioni del mondo, ma anche di scontro etnico, soprattutto quando lo scontro divenne tra nazionalità. Con il Trattato di Pace, dal 1947 cominciò la storia di Gorizia, divisa tra l’Italia e la Repubblica Jugoslava: il confine correva lungo la città, separava il centro storico, che restava italiano, dalle periferie e dalla stazione ferroviaria Transalpina, che appartenevano alla Jugoslavia. Non era solo il confine ben marcato tra Stati, ma tra due blocchi (anche se la Jugoslavia affermò la sua autonomia da quello sovietico), due sistemi politico-economici ben diversi. Nova Gorica e Gorizia furono chiamate la “piccola Berlino”, una città divisa in due. Ricaviamo una prima duplice lezione: niente del passato va perduto e nessun confine è invalicabile. Ricordo quello che diceva Giovanni Paolo II: «Ma tutto può cambiare… dipende anche da noi». Quella storia di sofferenza si è chiusa, anche se ha sempre bisogno di curare le ferite profonde e tutti dobbiamo imparare a non vivere contro o senza gli altri, ma insieme: “fratelli tutti”.
Slovenia e Italia hanno scelto da anni la cooperazione e questo è il frutto! E lo hanno scelto in un quadro europeo. L’Europa unita ha reso possibile molte cose, che prima e a lungo sembravano impossibili, proprio perché si è fondata sulla cooperazione, nella coscienza di avere un destino comune di pace tra i Paesi dell’Europa (che pure si erano combattuti) e del mondo. Questi frutti mostrano come l’Europa esista e sia una via verso il futuro, forse più di quanto i cittadini avvertano a causa della distanza delle istituzioni comunitarie. Non solo l’Italia, ma l’Europa può diventare maestra di pace. Anzi – come ha affermato recentemente il Presidente Mattarella – «il mondo ha bisogno dell’Europa. Per ricostruire la centralità del diritto internazionale che è stata strappata. Per rilanciare la prospettiva di un multilateralismo cooperativo» (Videomessaggio al 51° Forum Ambrosetti di Cernobbio, 6 settembre 2025).
E l’Europa deve esistere di più, anche se la insidiano e la indeboliscono i nazionalismi e i sovranismi e una leadership complessa. L’incertezza dei rapporti con l’Alleato americano di sempre e la condizione creata dall’invasione russa in Ucraina la pongono in una situazione totalmente nuova, che richiede soluzioni unitarie perché siano efficaci. Dobbiamo, come Chiesa italiana e come Chiese europee, portare il nostro sostegno al Continente, per un suo consolidamento come realtà di democrazia, pace e libertà, per la difesa della persona umana in un mondo che appare tanto in movimento. Abbiamo dunque bisogno, oggi più che mai, di esempi concreti come quello di Gorizia per dimostrare che la pace non è un’utopia per ingenui, ma è la vocazione dell’Italia, dell’Europa e di ogni società umana degna di questo nome. E non bisogna riprendere il sogno di Giovanni Paolo II perché respiri pienamente a due polmoni, fino agli Urali? E non dobbiamo dare anima all’Europa e difenderne i valori fondativi con una nuova Camaldoli? «È troppo sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che quanti si fanno “operatori di pace saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). L’esigenza della pace interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura». (Spes non confundit 8).
Certo, la realtà del mondo così imprevedibile, i conflitti, lo scuotimento di riferimenti storici generano un diffuso disorientamento. C’è una diffusa paura del futuro, anche perché molta gente vive sola e il nostro è spesso un popolo di soli, con lo sfaldamento della famiglia e del tessuto comunitario. La paura del futuro rinchiude nel presente e nella sua difesa. Anche il problema del calo demografico è espressione di questa paura, di concentrazione sul proprio io, di mancanza di speranza nel domani. Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti, che è di cinque anni fa, presentiva il grave scenario degli anni a venire: «La guerra non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante». In quella pagina il Santo Padre espresse una fulminante definizione della guerra, che resta scolpita nella memoria: «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male» (Fratelli tutti, 261). Cinque anni dopo, tali presentimenti si sono purtroppo avverati in pieno. La guerra ha già reso peggiore la vita di tanti Paesi e di milioni persone. Come non pensare a Gaza dove, mentre ancora gli ostaggi israeliani sono prigionieri in condizioni inumane, un’intera popolazione, affamata, bombardata, è costretta a un esodo continuo e con sofferenze drammatiche come ogni esodo. Facciamo nostre le parole di Leone XIV, unendoci alla sua preghiera, sul popolo di Gaza che «continua a vivere nella paura e a sopravvivere in condizioni inaccettabili, costretto con la forza a spostarsi ancora una volta dalle proprie terre» (Udienza generale, 17 settembre 2025). La Chiesa italiana si unisce al suo forte e accorato appello per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi. Ci domandiamo con inquietudine: cosa possiamo fare di più per la pace? Chiediamo: cessi il rumore delle armi in nome del rispetto per l’inviolabile dignità della persona umana, di ogni persona; siano protetti i civili da ogni forma di violenza fisica, morale e piscologica; sia garantita a ciascuno la libertà di decidere dove e come vivere nel rispetto dell’altro e in fraternità, perseguendo il principio dei due Stati, unica via per dare un futuro al popolo palestinese preso in ostaggio da Hamas e dall’offensiva militare tuttora in corso. Nell’importante Appello interreligioso, firmato insieme a UCEI, UCOII e COREIS, viene ribadito: «Nessuna sicurezza sarà mai costruita sull’odio. La giustizia per il popolo palestinese, come la sicurezza per il popolo israeliano, passano solo per il riconoscimento reciproco, il rispetto dei diritti fondamentali e la volontà di parlarsi» (Dichiarazione “Fermi tutti” di Bologna).
Da parte nostra, come Chiesa italiana, continueremo ad alleviare la crisi umanitaria e la sofferenza inaccettabile e ingiustificabile con ulteriori iniziative di cui daremo notizia prossimamente. La guerra è il fallimento della politica e dell’umanità. Avviene in Ucraina, dopo qualche recente speranza di negoziato – che speriamo sia con tenacia e creatività perseguita -, mentre nuove truppe vengono schierate sul terreno e i bombardamenti continuano sistematicamente. Il futuro sembra essere nel confronto militare. La guerra sfugge di mano anche a chi la provoca e crede di circoscriverla o indirizzarla, come avviene quando si accende un fuoco. È avvenuto un cambio di paradigma, ormai generalizzato, con la riabilitazione della guerra come strumento politico o di affermazione dei propri interessi. La pace, dalla Seconda Guerra mondiale, era stata l’ideale e lo scopo della politica internazionale, come si evince a chiare lettere nella Carta delle Nazioni Unite che hanno come primo obbiettivo: «salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità». Il 4 ottobre 1965, alla vigilia della conclusione del Concilio Vaticano II, Paolo VI portò la sua solenne ratifica all’ONU, ribadita da tutti i successori. Disse: «Voi segnate una tappa nello sviluppo dell’umanità, dalla quale non si dovrà più retrocedere, ma avanzare». Non si deve retrocedere, ma avanzare! «Non solo qui si lavora per scongiurare i conflitti fra gli Stati – continuò Paolo VI –, ma si lavora altresì con fratellanza per renderli capaci di lavorare gli uni per gli altri. Voi non vi contentate di facilitare la coesistenza e la convivenza fra le varie Nazioni; ma fate un passo molto più avanti, al quale Noi diamo la Nostra lode e il Nostro appoggio: voi promovete la collaborazione fraterna dei Popoli. Qui si instaura un sistema di solidarietà, per cui finalità civili altissime ottengono l’appoggio concorde e ordinato di tutta la famiglia dei Popoli per il bene comune, e per il bene dei singoli. Questo aspetto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è il più bello: è il suo volto umano più autentico; è l’ideale dell’umanità pellegrina nel tempo; è la speranza migliore del mondo; è il riflesso, osiamo dire, del disegno trascendente e amoroso di Dio circa il progresso del consorzio umano sulla terra; un riflesso, dove scorgiamo il messaggio evangelico da celeste farsi terrestre». Conosciamo bene la crisi dell’organizzazione. Ma non è indispensabile riprendere questo sogno, cercare di realizzarlo perché solo insieme si può difendere la casa comune?
Non stiamo vivendo solo una crisi dell’ONU. Siamo nell’età della forza. Addirittura, si teorizza che la guerra sia una compagna naturale della storia dell’uomo, quasi intrinseca alla natura umana da sempre, mentre la pace sarebbe qualche breve e occasionale parentesi, quasi fossimo dominati da un destino da cui è impossibile liberarsi, quello di combatterci e di ucciderci a vicenda.
Vogliamo però sfuggire alla globalizzazione dell’impotenza, con molta saggezza indicata da Papa Leone, per cui pensiamo non si possa fare nulla. «La globalizzazione dell’impotenza è figlia di una menzogna: che la storia sia sempre andata così, che la storia sia scritta dai vincitori. Allora sembra che noi non possiamo nulla. Invece no: la storia è devastata dai prepotenti, ma è salvata dagli umili, dai giusti, dai martiri, nei quali il bene risplende e l’autentica umanità resiste e si rinnova» (Videomessaggio, 12 settembre 2025). È a questo popolo che vogliamo appartenere, incoraggiati anche da tanti testimoni che non hanno smesso di essere cristiani nella tempesta del male. Desideriamo che momenti di preghiera e digiuno, come già avvenuto in tante Diocesi e realtà del nostro Paese, si possano moltiplicare. La pace inizia dalla prossimità, si impara nel gesto di accogliere, di non respingere, di sostare con l’altro. Sempre Papa Leone indicava la cultura della riconciliazione come l’antidoto a quella dell’impotenza. «Riconciliarsi è un modo particolare di incontrarsi. Oggi dobbiamo incontrarci curando le nostre ferite, perdonandoci il male che abbiamo fatto e anche quello che non abbiamo fatto, ma di cui portiamo gli effetti. Tanta paura, tanti pregiudizi, grandi muri anche invisibili ci sono tra noi e tra i nostri popoli, come conseguenze di una storia ferita. Il male si trasmette da una generazione all’altra, da una comunità all’altra. Ma anche il bene si trasmette e sa essere più forte! Per praticarlo, per rimetterlo in circolo, dobbiamo diventare esperti di riconciliazione». Ecco il nostro impegno, qui e ovunque: «Riparare ciò che è infranto, trattare con delicatezza le memorie che sanguinano, avvicinarci gli uni agli altri con pazienza, immedesimarci nella storia e nel dolore altrui, riconoscere che abbiamo gli stessi sogni, le stesse speranze. Non esistono nemici: esistono solo fratelli e sorelle». Significa promuovere la cultura del dialogo autentico: non solo parlare, ma ascoltare; non solo difendere la propria posizione, ma essere disposti a lasciarsi trasformare dall’incontro con l’altro.
Altrimenti il rischio è rimanere intrappolati nella polarizzazione, che non solo fa perdere l’opportunità di vie nuove, ma alimenta ulteriore conflitto: radicalizzazione, chiusura, violenza verbale o fisica, sospensione dell’altro dalla comunità, innalzamento delle barriere emotive e cognitive. La polarizzazione si manifesta quando opinioni, identità e appartenenze diventano muri invalicabili: “noi” contro “loro”, amici contro nemici, verità contro menzogna. Il rischio mortale è che ogni interlocutore venga spogliato della sua umanità. Qui inizia l’odio, che poi rende vittime e artefici, allo stesso tempo, se non si combatte per tutti e in ogni situazione. Assistiamo spesso ad un pericoloso scontro continuo e intransigente, dove diventa impossibile immaginare vie alternative: ogni soluzione si irrigidisce, ogni compromesso diventa tradimento. Rimanere intrappolati in questa logica vuol dire rinunciare alla possibilità di una pace creativa, di innovazione morale, di riconoscimento dell’umanità che pulsa nell’altro. Eppure è proprio fuori da quella logica che può nascere qualcosa di nuovo. Quando altre categorie – la compassione, la cura, la vicinanza – vengono rimesse al centro, cessa la fatalità della divisione. Un semplice gesto umano può spezzare la spirale: il perdono, l’abbraccio, il riconoscimento del dolore altrui.
Per evitare questi rischi serve un’educazione che valorizzi la pluralità, il riconoscimento dell’altro, il dialogo e la buona fede, anche quando ciò può apparire ingenuo. Ogni parrocchia e comunità sia una casa di pace e di non violenza che promuova e raccolga le tante e importanti istanze che salgono dalla società civile. Per i cristiani, l’impegno alla pace non è un’opzione morale fra tante, ma una dimensione costitutiva del Vangelo. Gesù ci ricorda che basta dire pazzo a nostro fratello per essere omicidi! Egli invita ad amare i nemici. Questo impegno si traduce nel promuovere riconciliazione, giustizia, cura dei più vulnerabili, rifiuto di ogni forma di violenza. Essere cristiani significa anche denunciare le guerre e le ingiustizie, sostenere la diplomazia, offrire accoglienza a chi fugge da conflitti. E significa pure lavorare perché in tutto il nostro Paese e in tutte le comunità locali si costruisca un dialogo autentico, una reciprocità che superi le paure radicate. Significa testimoniare che la pace non è assenza di conflitto, ma presenza viva di legami di solidarietà, di cura, di ascolto profondo. Educare alla pace oggi significa formare persone che sappiano uscire dai muri della polarizzazione, che comprendano che il cristianesimo chiede fedeltà al comandamento dell’amore. Persone che riconoscano la pace non come diritto garantito ma come opera quotidiana, fragile, spesso silenziosa, eppure autentica. Se oggi il nostro mondo sembra preferire l’eco dei tamburi di guerra al sussurro della riconciliazione, educare alla pace è un atto di resistenza rivoluzionaria. È piantare semi di umanità in terre apparentemente sterili. È scommettere che un abbraccio possa valere più di mille discorsi, che una mano tesa possa aprire più porte di ogni negoziato. È credere – contro ogni evidenza – che in ogni cuore umano, anche il più indurito, possa ancora risuonare l’eco di quella pace che il mondo non può dare, ma che proprio per questo il mondo non potrà mai togliere. Solo così, forse, in una società lacerata, può rinascere una speranza che non sia più palliativo, ma trasformazione.
La Chiesa, fedele al Vangelo di Cristo, aiuta una rinnovata passione per la vita, che difende dal suo inizio alla fine, trasmette la gioia di donarla, la bellezza della famiglia, il senso di essere comunità, rappresenta un noi attraente e umano. Credo opportuno riaffermare quanto dichiarato in passato, ovvero l’auspicio che «si giunga, a livello nazionale, a interventi che tutelino nel miglior modo possibile la vita, favoriscano l’accompagnamento e la cura nella malattia, sostengano le famiglie nelle situazioni di sofferenza. Ribadiamo, peraltro, che la legge sulle cure palliative non ha trovato ancora completa attuazione: queste devono essere garantite a tutti, in modo efficace e uniforme in ogni Regione, perché rappresentano un modo concreto per alleviare la sofferenza e per assicurare dignità fino alla fine, oltre che un’espressione alta di amore per il prossimo. Sulla vita non ci possono essere polarizzazioni o giochi al ribasso. La dignità non finisce con la malattia o quando viene meno l’efficienza. Non si tratta di accanimento, ma di non smarrire l’umanità» (Nota della Presidenza CEI, 19 febbraio 2025).
L’esperienza del Giubileo dei giovani, che si è svolto a Tor Vergata poco più di un mese fa (Roma, 28 luglio – 3 agosto 2025) è stata l’ennesima prova – se ve ne fosse ancora bisogno – della vitalità dei giovani e del loro desiderio di spiritualità, di interiorità, di comunione e di Chiesa. Se le analisi spesso puntano sulla diminuzione della partecipazione alle celebrazioni, delle vocazioni presbiterali e religiose o dei matrimoni religiosi, dobbiamo anche riconoscere che la sete di esperienze di fede nei giovani non si è estinta. Semmai si tratta da parte nostra di intercettare questi desideri, di accoglierli e di farli incontrare con l’annuncio evangelico. Le recenti canonizzazioni di San Piergiorgio Frassati e di Carlo Acutis, così partecipate dai fedeli, hanno mostrato come esista questa domanda di futuro, di una vita carica di senso e di entusiasmo. Queste due figure di giovani, vissuti in tempi differenti, ci invitano a rivolgere, con i giovani, lo sguardo verso il futuro con speranza. Carlo, così contemporaneo a noi e santo dell’Eucarestia, diceva: «amare il domani e dare il meglio del nostro frutto». Di Piergiorgio, Papa Leone ha detto: «Per lui la fede non è stata una devozione privata: spinto dalla forza del Vangelo e dall’appartenenza alle associazioni ecclesiali, si è impegnato generosamente nella società, ha dato il suo contributo alla vita politica, si è speso con ardore al servizio dei poveri». Le loro sono storie diverse, ma entrambi sono vissute in una comunità di fede: le associazioni ecclesiali per Frassati, per Acutis la famiglia e la parrocchia. Perché c’è bisogno di una rinascita della Chiesa come comunità, che generi santità e speranza per il futuro; comunità che non siano aziende, ma famiglia di coloro che “ascoltano e mettono in pratica la Parola”, annunciando la fede nel Cristo risorto e nella vita eterna.
Certo, noi vediamo i problemi dell’ora presente, quelli delle nostre Chiese, le nostre fragilità. Non indulgiamo, però, in un facile e triste atteggiamento ipercritico, sovente malevolo e distruttivo, che patteggia col l’idolatria indiscussa dell’individualismo, che si “sporca” poco le mani con la costruzione di comunità che richiedono gratuità, impegno e obbedienza. In occasione del Giubileo dei giovani, Papa Leone ha poi detto: «Cari giovani, vogliatevi bene tra di voi! Volersi bene in Cristo. Saper vedere Gesù negli altri. L’amicizia può veramente cambiare il mondo. L’amicizia è una strada verso la pace». A quei giovani venuti da tanti paesi, alcuni dei quali in guerra tra loro, il Papa ha rilanciato una sfida evangelica. Non si tratta di un pio desiderio, ma di una attualizzazione della buona novella. Come si legge nella Lettera agli Efesini, che mediteremo domani nella veglia: «Cristo è la nostra pace: di due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne» (Ef 2,14). Mi piacerebbe che le nostre comunità trovassero l’occasione per verificare il loro “tasso di amicizia”, per essere luoghi dove imparare a volersi bene, vivere relazioni con uno stile improntato all’onestà, al disinteresse, alla valorizzazione e al rispetto dell’altro. La grazia che chiediamo in questi ultimi mesi del Giubileo, ma che ci sembra già affiorare dal cammino dei mesi passati, è che la speranza rifiorisca nella Chiesa, che tocchi e apra il cuore, che faccia di noi testimoni della speranza. Credo che, dopo questo Giubileo, con la grazia di questo Anno, siamo chiamati a guardare con uno sguardo missionario il futuro del nostro Paese. In questa società disarticolata c’è da ritessere la fraternità, secondo quelle indicazioni che papa Francesco ci ha offerto nella Fratelli tutti. La Chiesa, radunata attorno all’altare e alla Parola di Dio, è creatrice di fraternità: genera comunità.
Un’ulteriore declinazione di questa “amicizia ecclesiale”, di cui abbiamo goduto in questi anni e che tanto è cresciuta, mi pare di poterla cogliere negli ultimi passi del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia. Dalla fase dell’ascolto nel 2021 ad oggi abbiamo tessuto trame di amicizia, fatta di confronto leale anche tra opinioni diverse. Come è noto, la seconda Assemblea sinodale (Roma, 31 marzo – 3 aprile 2025) si è chiusa con una mozione unanime, che chiedeva la riscrittura del testo da votare. Da allora tutte le persone coinvolte (delegati e Comitato) hanno lavorato alacremente e con dedizione per riformulare il testo che abbiamo adesso tra le mani. Il prossimo 25 ottobre, questo testo sarà votato dalla terza Assemblea sinodale, per essere poi presentato a noi Vescovi riuniti nell’Assemblea generale di novembre (Assisi, 17 – 20 novembre 2025).
Mi preme rammentare il gesto di grande responsabilità ecclesiale con cui il Consiglio Permanente, riunitosi durante la seconda Assemblea sinodale, ha deciso di rimandare l’Assemblea generale da maggio a novembre 2025. Di fronte alle fatiche incontrate nella seconda Assemblea, abbiamo voluto dare e prenderci tempo per far maturare in modo opportuno un testo che fosse davvero espressione fedele del percorso compiuto. D’altra parte, se il Cammino Sinodale finirà verosimilmente tra un mese, come Vescovi ci attende un impegno delicato che va ben oltre, e riguarda i prossimi anni delle nostre Chiese: accogliere, discernere e concretizzare quanto ci verrà consegnato dall’Assemblea sinodale. Avremo davanti a noi la sfida di individuare le priorità e conseguentemente gli strumenti adatti per tradurre queste priorità, affinché le nostre Chiese diventino sempre più missionarie e comunionali. La sinodalità infatti non finisce, ma deve diventare uno stile e una serie di scelte operative, coinvolgenti, fraterne e profetiche. La sinodalità ha bisogno di tutti, di una collegialità partecipe e lungimirante e di ascoltare sempre il primato di colui che presiede nella comunione.
Nell’omelia del Santo Padre per la commemorazione ecumenica dei nuovi martiri nella Basilica di San Paolo, per l’Esaltazione della Croce (si vede quanti cristiani siano caduti, negli ultimi venticinque anni, perché non cedono a un destino di male, di violenza, di tenebre, mentre offrono la loro vita), Leone abbia chiuso così: «un bambino pakistano, Abish Masih, ucciso in un attentato contro la Chiesa cattolica, aveva scritto sul proprio quaderno: ‘Making the world a better place’, ‘rendere il mondo un posto migliore’. Il sogno di questo bambino (e di tutti i bambini la cui vita va sempre difesa, ndr), ci sproni a testimoniare con coraggio la nostra fede, per essere insieme lievito di un’umanità pacifica e fraterna». Anche in mezzo alle tempeste, di fronte a situazioni apparentemente insolubili, noi crediamo come quel bambino pakistano che si può rendere il mondo migliore con fede e con amore. Non restano, con la loro ingenuità, solo i bambini a sognare e a scrivere sul loro quaderno, ma noi tutti, con fede, non rinunciamo a questo sogno. Vogliamo scriverlo sul quaderno della vita! Il mondo può cambiare in profondità e divenire migliore.
Carissimi Confratelli, da questo osservatorio del tutto unico e privilegiato che è Gorizia, proviamo a guardare le sfide ecclesiali e sociali del nostro tempo come farebbe Gesù. Il Vangelo di Giovanni racconta che ancora a distanza di mesi dalla mietitura invitava già i suoi discepoli con queste parole: «Alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano» (Gv 4,35). Anche per noi è tempo di alzare lo sguardo con speranza. C’è una gioia che accomuna chi semina e chi miete (cfr. Gv 4,36). Forse a noi spetta il compito di seminare e ad altri di mietere. Quello che è essenziale adesso è non ripiegarsi su sé stessi, ma piuttosto cogliere e valorizzare i piccoli segni che preludono a qualcosa di grande, essere portatori di speranza come i giovani che sanno costruire il loro futuro, diventare costruttori umili e tenaci di una pace giusta e di tanta fraternità tra le persone.
(c) foto Ilaria Tassini
Durante i lavori della tre giorni, sarà illustrato il programma dell’Assemblea Generale straordinaria che si terrà dal 17 al 20 novembre ad Assisi. Verranno inoltre presentati il testo e le procedure per la Terza Assemblea Sinodale, in programma a Roma il 25 ottobre.