Anche quest’anno ci ritroviamo insieme a vivere questa celebrazione che le Premesse del Pontificale Romano definiscono come «epifania della Chiesa locale», è questo infatti il momento in cui possiamo percepire la realtà della nostra Chiesa, una realtà fatta di tante vocazioni e di tanti doni, una realtà bella e ricca di fede e di amore. Dobbiamo confessare che facciamo fatica a rendercene conto, presi come siamo a risolvere problemi e a lamentarci dei difetti e dei limiti che riscontriamo nella nostra vita ecclesiale. Abbiamo bisogno di questo momento di sosta per guardare con uno sguardo diverso la nostra Chiesa. Abbiamo bisogno soprattutto di porre il nostro sguardo su ciò che sta all’origine ed è il fondamento della nostra Chiesa. La liturgia ce lo mostra attraverso il segno dell’olio e il gesto correlato dell’unzione.
L’olio, come l’aria, l’acqua, la luce, appartiene a quelle realtà elementari del cosmo che meglio esprimono i doni di Dio creatore, redentore e santificatore; è sostanza terapeutica, aromatica e conviviale: medica le ferite, profuma le membra, allieta la mensa. Questa natura dell’olio è assunta nel simbolismo biblico-liturgico ed è caricata di un particolare valore per esprimere l’unzione dello Spirito che risana, illumina, conforta, consacra e permea di doni e di carismi tutto il corpo della Chiesa.
La Liturgia della benedizione degli oli esplicita questo simbolismo primordiale e ne precisa il senso sacramentale: la Chiesa nasce dal dono dello Spirito ed è da esso configurata attraverso i sacramenti come Corpo di Cristo, cioè organismo vivo dove i singoli fedeli sono uniti tra di loro da un vincolo che non è solamente umano ma viene dallo Spirito.
La Chiesa, nella sua forma visibile, nasce dall’incontro tra l’unzione dello Spirito e la risposta che noi diamo ad essa, lasciandoci plasmare e configurare per essere veramente membra del Corpo di Cristo. Vorrei fermarmi questa sera con voi proprio su questo aspetto: l’unzione dello Spirito fa di noi le membra di un corpo, cellule di un organismo. Per corrispondere al dono di Dio e alla sua chiamata pertanto non possiamo pensarci come singoli, indipendenti dagli altri fedeli, ma dobbiamo pensarci come parte di un corpo. Questa consapevolezza, poi, deve tradursi nella concretezza della vita ecclesiale in un pensare insieme che diventa poi anche un fare insieme. Comunicare, condividere, collaborare non è un qualcosa di facoltativo, un di più ma è costitutivo del nostro essere parte della Chiesa. Per essere un bravo prete, un bravo laico, una buona religiosa, non basta che singolarmente ci impegniamo, che realizziamo iniziative e che facciamo del bene, occorre che pensiamo e operiamo insieme. Ciò non è affatto scontato: è invece tanto difficile e faticoso, perché ci chiede di uscire dal nostro «io» per aprirci al «noi», abbattendo i muri che anche in buona fede ci costruiamo.
Per uno stile autenticamente ecclesiale non basta comunicare quanto già in autonomia abbiamo deciso di fare, né solamente essere disponibili ad una generica collaborazione su taluni aspetti. È necessario un passo fondamentale che è quello di pensare il più possibile insieme. Questa affermazione può suscitare sorpresa, perché il pensiero è per sua natura un’attività individuale. Certamente c’è una dimensione del pensare che è intima, personale, ma è possibile connettere il proprio pensiero con quello di altri. In altri termini non basta che io segua i miei pensieri e le mie convinzioni, devo sentire la necessità di metterle e confronto con quelle degli altri, devo essere disponibile ad arricchirle o a modificarle in base a ciò che emerge nel confronto. Il pensare insieme allora chiede prima di tutto l’ascolto, un ascolto vero, non di maniera, che diventa dialogo e si apre alla condivisione e alla comunione. Solo chi sa pensare insieme agli altri è capace di fare insieme e di inserirsi in un disegno più grande. Chi è preoccupato solo di affermare le proprie idee si creerà delle nicchie, non arriverà mai a collaborare con gli altri e sarà sempre un «battitore libero». Anche il bene che farà rimarrà incompleto, parziale, viziato dalla ricerca di affermare se stesso più che dal desiderio di procurare il bene del prossimo e della comunità.
È questo il «camminare insieme» (la «sinodalità») che papa Francesco ci indica come ciò che il Signore vuole dalla sua Chiesa in questo terzo millennio. Comprendiamo allora come tutte le espressioni della vita ecclesiale ne devono essere segnate. Più ancora che i risultati è importante lo stile con cui viviamo e operiamo come singoli e come comunità cristiane. A questo punto ognuno di noi sentirà affiorare le delusioni e le sofferenze legate alla sua esperienza di vita ecclesiale e sarà tentato di fermarsi qui: quante ferite, quanti insuccessi nei nostri tentativi di collaborare e di condividere. Quanta fatica! Vien da dire: basta, non ce la faccio più, non me la sento di provare ancora. Il Giubileo, con il suo invito a ricominciare da capo fidandosi di un Dio che ci offre sempre la possibilità di un nuovo inizio, ci provoca a non lasciarci vincere dalla rassegnazione ma di avere l’audacia di metterci di nuovo in cammino insieme. Diventeremo così portatori di una profezia di cui il mondo di oggi ha estremo bisogno: come cristiani siamo chiamati a mostrare che è possibile vivere in maniera diversa rispetto alla cultura dell’io che oggi si afferma sempre di più. In un mondo lacerato da conflitti dobbiamo testimoniare con il nostro stile che è possibile vivere il «noi».
Se riusciremo ad operare questa conversione potremo superare le divisioni e i conflitti che sciupano la bellezza della nostra Chiesa. In particolare potremo sperimentare un modo nuovo di essere comunità cristiana, dove ognuno si sente rispettato e valorizzato per la sua chiamata e per il suo dono, dove ci si sostiene, ci si apprezza, dove vi è pure la fiducia e la confidenza per praticare la correzione fraterna.
In questo contesto vogliamo collocare anche la particolare attenzione che la liturgia della messa crismale ci propone riguardo ai presbiteri, che, esercitando il sacerdozio ministeriale, sono a servizio del popolo sacerdotale formato da tutti i battezzati. Tra poco insieme con il Vescovo, i presbiteri rinnoveranno le promesse della loro ordinazione e il popolo pregherà per loro perché siano fedeli ai loro impegni. Sperimenteremo così l’intima unione del sacerdozio comune, quello di tutti i fedeli, con quello ministeriale, quello cioè del vescovo e dei presbiteri e avremo modo di ringraziare il Signore del dono che i ministri ordinati sono per tutta la comunità. In modo particolare il nostro ringraziamento riguarderà i presbiteri che quest’anno festeggiano un particolare giubileo: mons. Guido Lucchiari, 50° di sacerdozio, 65° don Mario Chieregato (da molti anni vive fuori diocesi, fino a qualche anno fa a Milano, ora a Sanremo). Ricordiamo nella preghiera anche quanti non possono essere presenti questa sera per l’età e le condizioni di salute o perché svolgono un ministero fuori Diocesi (penso a mons. Livio Melina e a mons. Luca Marabese). Concludo con un annuncio che è motivo di gioia: sabato 31 maggio ordinerò un nuovo presbitero nella persona di don Andrea Canal Altafin: in queste settimane che lo separano dall’ordinazione impegniamoci ad accompagnarlo con la nostra amicizia ma soprattutto con la nostra preghiera.