QUALE SPIRITUALITÀ PER RISPONDERE ALLE SFIDE DEL TEMPO PRESENTE?

Meditazione per la “Giornata di santificazione sacerdotale”
24-06-2022

Premessa

Siamo tutti d’accordo che di fronte alle difficoltà abbiamo bisogno di un di più di spiritualità. Ciò non significa però evadere dai problemi e trovare rifugio in una nicchia dove ci sentiamo protetti e sicuri in attesa che tornino tempi più favorevoli. La spiritualità cristiana è vita secondo lo Spirito e quindi cercare un di più di spiritualità comporta capire dove lo Spirito ci vuole condurre non nonostante, ma proprio attraverso le vicende di questo tempo che ci è dato da vivere. Spiritualità non è un insieme di pratiche, ma è soprattutto dare alla propria vita la forma che lo Spirito ci indica in rapporto al mondo e alla cultura in cui ci è dato di vivere.

Come Vescovo sento molto questo compito di aiutare la mia chiesa, in particolare i preti, a interpretare alla luce della fede il tempo che viviamo. Sono convinto che prima di indicare le cose da fare, sia necessario trovare il senso di quello che sta capitando e dare risposte che non nascano solo dalle nostre reazioni emotive, ma che siano «secondo lo Spirito». Sappiamo infatti che proprio nelle circostanze più negative, lo Spirito apre alla Chiesa cammini nuovi. Ricordo nel libro degli Atti la persecuzione seguita al martirio di Santo Stefano, che attraverso la dispersione dei cristiani provenienti dal paganesimo ha aperto la strada all’annuncio del Vangelo fuori di Gerusalemme, oppure la prigionia di Paolo che ha permesso all’Apostolo di arrivare a Roma.

Vorrei partire da un dato di fatto: la condizione di prova in cui oggi si trovano i preti, non solo i preti di Adria-Rovigo ma, quantomeno, di tutta Italia. All’Assemblea della CEI questo è emerso con particolare forza rispetto al cammino sinodale. È stata una constatazione generale: mentre alcuni laici si sono coinvolti con entusiasmo e hanno vissuto un’esperienza bella, i preti sono rimasti più freddi e distaccati. Nell’intervento conclusivo dell’Assemblea il card. Zuppi, nuovo Presidente, ha rilevato la necessità che noi Vescovi ci prendiamo cura dei preti e cerchiamo le modalità adeguate per coinvolgerli perché non possiamo accettare che restino ai margini del cammino sinodale. Personalmente credo che questo dato non debba essere motivo di giudizi morali, ma piuttosto provocazione per capire cosa stanno vivendo i preti. Per questo ritengo molto importante la presenza qui con noi anche delle religiose e di alcuni laici più sensibili perché è necessario che questa difficoltà sia compresa e condivisa: non è tanto qualcosa di soggettivo, che dipende dalla buona volontà o meno; ha cause oggettive legate alla condizione di fatto in cui viviamo.

Sono convinto che oggi i preti sono messi a dura prova proprio dalle condizioni inedite in cui si trovano a vivere il ministero: irrilevanti dal punto di vista sociale, pressati da richieste prive di qualsiasi motivazione di fede (cf sacramenti), alle prese con problematiche materiali e amministrative sempre più complesse, dentro un cambiamento continuo e sempre più veloce.

 

Una spiritualità del pellegrinaggio per affrontare l’incertezza del cambiamento

Non abbiamo più certezze e questo ci spiazza e ci toglie serenità, ci porta a chiuderci nella tristezza e nella delusione. Di fronte all’incertezza proviamo la tentazione di esigere risposte che ci diano sicurezze, che ci risolvano i problemi pastorali: di qui ad esempio la richiesta di direttive chiare a cui tutti debbano attenersi (salvo poi dire quando qualche norma viene data che me ne dispenso e che sarà obbligatoria solo per chi viene dopo di me). Preciso che le direttive, le norme ci vogliono, ma non possiamo illuderci che siano la sola risposta per affrontare un mondo che cambia velocemente e radicalmente. Dobbiamo chiederci se è questo che il Signore vuole da noi in questo tempo o se invece ci domanda di essere umili cercatori di verità parziali, capaci di stare con umiltà in mezzo alle tante contraddizioni del tempo presente. Dobbiamo avere il coraggio dei piccoli passi ispirati da una visione, da un sogno.

Leggendo la Bibbia vediamo che proprio l’incertezza è una dimensione costante, potremmo dire costitutiva, della storia della salvezza e del popolo che Dio si è scelto, un popolo che non ha una fissa dimora, ma che è sempre in cammino, anche dopo essere entrato nella Terra Promessa. La risposta alla condizione di incertezza in cui ci troviamo sta allora nell’accettare di essere pellegrini, non nomadi, ma pellegrini, che camminano avendo una meta che il Signore ci indica. Non conosciamo tutti i passaggi per arrivare alla meta, ma ci fidiamo di porre i passi dove ci indica la Parola del Signore. Accettare di vivere nell’incertezza vuol dire accogliere la sfida di metterci in cammino guidati da una intuizione, una visione come Abramo che è mosso dalla promessa di una terra e di una discendenza e parte senza conoscere i dettagli del viaggio che lo aspetta, ma si fida e fa un passo dopo l’altro senza scoraggiarsi e senza pretendere di avere subito una conferma.

Vivere da pellegrini esige da noi la capacità di accogliere la novità: vorrei far osservare che per uscire dall’incertezza la prima soluzione a cui pensiamo è quella di rifugiarci in ciò che abbiamo sempre fatto. Del resto è questo il suggerimento dei nostri fedeli più vicini, i quali ci suggeriscono di riprendere le prassi dei nostri predecessori. Conservare i valori trasmessi da chi è vissuto prima di noi, tramandare anche alcune prassi significative per la comunità è senz’altro positivo, ma allo stesso tempo dobbiamo essere capaci di introdurre gesti, prassi, linguaggi nuovi. Non si tratta dell’amore del nuovo solo perché è diverso dal passato, ma di andare incontro ad un mondo che cambia e ha bisogno di risposte adeguate, diverse da quelle che davamo anche solo 10,20,30 anni fa. Noi ci lamentiamo perché le generazioni più giovani hanno abbandonato la pratica religiosa e la partecipazione alle nostre parrocchie (non solo i ventenni, ma anche i trentenni, i quarantenni, gli stessi cinquantenni): dovremmo però chiederci anche che cosa facciamo per entrare in dialogo con loro. Mi ha colpito nelle risposte arrivate dai gruppi sinodali, una considerazione da parte di chi non frequenta. La domanda riguardava proprio il motivo per cui non si partecipa alla vita della chiesa. La risposta evidenzia come la difficoltà dei non frequentanti viene proprio da chi già è praticante: «I frequentatori non assidui della parrocchia, a volte tornano a casa demotivati perché percepiscono un senso di gruppo a sé e non di comunità (anche se dicendo questo non si vuole mancare di rispetto verso le persone che si impegnano costantemente nelle realtà parrocchiali, anzi sono da ringraziare!)».  La difficoltà maggiore allora consisterebbe nel trovarsi di fronte a qualcosa che è già consolidato e per il quale manca la disponibilità di qualsiasi cambiamento: questo respinge chi si accosta, lo fa sentire un estraneo se non addirittura un intruso. Il prete spesso si trova preso in mezzo tra la richiesta dei parrocchiani più fedeli di non cambiare nulla e la necessità invece di tentare strade nuove per intercettare gli altri, quelli che stanno fuori e che non sappiamo come coinvolgere.

Accogliere la richiesta del nuovo comporta la disponibilità di sperimentare: non ci sono ricette o progetti che calano dall’alto e che ci risolvono i problemi pastorali. Possiamo però cominciare a mettere alla prova qualche prassi nuova: si deve sperimentare perché. non si può cambiare tutto subito. La logica del Vangelo è una logica di lievito, di sale. Si procede per piccoli passi, ciascuno dei quali è necessario per continuare insieme il cammino e operare un discernimento. Sperimentando è possibile imparare gli uni dagli altri: è nella logica del processo promuovere un apprendimento diffuso, che coinvolge tutti coloro che vi prendono parte. Il cambiamento infatti esige riapprendere linguaggi, simboli, riti, abitudini, ruoli. E’ un vero cambiamento di paradigma. Sperimentando è possibile attuare questo apprendimento in modo condiviso e graduale.

Vivere da pellegrini vuol dire anche uscire, andare verso le persone per incontrarle nella loro quotidianità. Vorrei ricordare un’esperienza di un nostro confratello che ha fatto in questi mesi una supplenza di insegnamento della religione in una scuola superiore. Ha avuto la sorpresa positiva di riuscire a interloquire con i giovani come non gli era mai successo prima in parrocchia, affrontando con loro domande religiose molto profonde, che in ambito parrocchiale solo raramente gli erano state poste. Questa esperienza è un segnale che esiste una domanda religiosa, ma dobbiamo cercare di intercettarla andando incontro alle persone entrando nei loro mondi vitali.

Vivere da pellegrini senza certezze ma sempre in ricerca non è facile: ci mette alla prova, in certi casi anche provoca in noi una sofferenza insopportabile a cui reagiamo diventando rigidi e cercando di incasellare la realtà dentro schemi che ci diano almeno un po’ di sicurezza. Ho l’impressione che per qualcuno possa apparire un passaggio superiore alle sue forze. Per accettare di vivere nella precarietà dei pellegrini è necessaria una conversione profonda e un aiuto dall’alto, ma non è possibile tornare a vivere come se il mondo fosse fermo e immutabile: lo vogliamo o non, il mondo è in continua evoluzione.

 

Una spiritualità sinodale per non essere pellegrini solitari

Una spiritualità del pellegrinaggio è anche una spiritualità sinodale: si è pellegrini non da soli, ma insieme con altri compagni di viaggio, che condividono con noi una meta da raggiungere e le fatiche del cammino. Ci stiamo familiarizzando con questo aggettivo, ma dobbiamo riempirlo di contenuti perché non sia semplicemente un’etichetta che appiccichiamo alla realtà. Sappiamo che «sinodale» indica il «camminare insieme», ma occorre andare più a fondo per capire cosa questo comporta in concreto. A me sembra importante richiamare la vostra attenzione su due aspetti: ascolto e discernimento, da intendere soprattutto nella loro valenza spirituale.

Come preti siamo stati educati a parlare, insegnare: l’ascolto ha sempre avuto un posto secondario. Nella prassi pastorale tradizionale ascoltare serviva per capire i problemi dell’altro e quindi poter dare una risposta efficace. Nello stile sinodale invece l’ascolto serve per imparare noi e per lasciarci cambiare dal pensiero espresso dall’altro: nel pensiero dell’altro infatti è lo Spirito Santo che mi parla.

Ascoltare è fare spazio perché l’altro possa esprimere ciò che lo Spirito gli suggerisce. Il gradimento incontrato dai «gruppi sinodali» è dipeso soprattutto dalla piacevole sorpresa dei partecipanti di sentirsi ascoltati, cioè di avere la libertà di esprimersi senza essere giudicati. L’ascolto sinodale non è un ascolto generico, in cui ciascuno dice quanto gli passa per la mente, come accade nei talk show o nelle chiacchiere da bar. È un’esperienza spirituale: non a caso si parla del metodo della «conversazione spirituale». La prima preoccupazione pertanto deve essere quella di creare le condizioni perché questo avvenga: aprire spazi, non solo fisici (tempi e ambienti adeguati) ma anche spirituali (un clima di preghiera). La sorpresa e la gioia provata da tanti di coloro che hanno partecipato ai «gruppi sinodali» ci dicono che c’è un grande bisogno di questo tipo di ascolto e di conversazione spirituale. Anche i preti ne hanno bisogno: dovremmo interrogarci se i nostri incontri hanno, almeno qualche volta, questo stile o se si limitano ad essere momenti superficiali, in cui al più ci raccontiamo gli ultimi pettegolezzi, ma non ci mettiamo in gioco su quello che conta veramente. Di qui la delusione, la chiusura, il fare da soli.

Nello stile sinodale l’ascolto è propedeutico al discernimento comunitario (non solo del singolo, ma fatto insieme da un gruppo/una comunità). Vorrei sottolineare un passaggio presente nel metodo suggerito per i gruppi sinodali: dopo un primo giro in cui ciascuno esprime il proprio pensiero, viene chiesto ad ognuno nel secondo giro di indicare che cosa lo ha colpito in quanto hanno espresso gli altri. È in questo passaggio che è possibile aprirsi alla novità dello Spirito e uscire fuori di se stessi e dei propri pensieri. Uscendo tutti dai propri pensieri e aderendo al pensiero altrui nasce e si consolida il consenso, che sta oltre il pensiero del singolo. In altri termini l’ascolto per essere vero ed efficace mi deve cambiare portandomi oltre il mio pensiero di partenza per far mio quanto sento venire dallo Spirito.

Ascolto e discernimento ci conducono dall’io al noi: il noi ecclesiale frutto non tanto delle nostre simpatie e affinità, ma dell’azione dello Spirito. Ne abbiamo bisogno per uscire dal clima di amarezza e di delusione che nasce dal constatare la fatica che facciamo a fare qualche cosa insieme: siamo incapaci anche solo di pensare qualche iniziativa comune tra preti, tra parrocchie, non parliamo poi di iniziative diocesane. Questo stato d’animo rende faticose e improduttive tutte le modalità ecclesiali di partecipazione e corresponsabilità: pensiamo ai consigli diocesani, alle riunioni vicariali di preti e di preti/laici insieme.

 

Una spiritualità del presbiterio

A questo punto vorrei introdurre un terzo aspetto della spiritualità che ci serve per affrontare le sfide del tempo presente: non semplicemente una spiritualità del presbitero ma una spiritualità del presbiterio. La dimensione collegiale del ministero dei presbiteri è stata riproposta dal Concilio Vaticano II, in particolare nel Decreto Presbyterorum Ordinis al n. 8: «Tutti i presbiteri, costituiti nell’ordine del presbiterato mediante l’ordinazione, sono uniti tra di loro da un’intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono ascritti sotto il proprio vescovo» La dimensione collegiale del presbiterato è ripresa poi da tutti i documenti magisteriali successivi. Ad esempio in Pastores dabo vobis di Papa Giovanni Paolo II si legge: «Il ministero ordinato, in forza della sua stessa natura, può essere adempiuto solo in quanto il presbitero è unito con Cristo mediante l’inserimento sacramentale nell’ordine presbiterale e quindi in quanto è nella comunione gerarchica con il proprio Vescovo. Il ministero ordinato ha una radicale “forma comunitaria” e può essere assolto solo come «un’opera collettiva» (n.17). Potremmo tradurre in termini più semplici che nessuno è prete da solo, ma solo insieme con gli altri preti e con il Vescovo. Nonostante gli anni trascorsi dal Concilio Vaticano II dobbiamo ancora trarre tutte le conseguenze da questa riscoperta del presbiterio. Probabilmente pesa anche l’identificazione del ministero presbiterale con il parroco: la configurazione della parrocchia dal Concilio di Trento in poi ha favorito un’impostazione individualistica del ministero presbiterale. La sottolineatura del rapporto personale tra il parroco e i fedeli della parrocchia, se non viene equilibrata, rischia di portare ad una visione distorta del rapporto tra i presbiteri e pure del presbitero con il Vescovo. Credo che un ripensamento della parrocchia, possa essere di aiuto anche per rendere possibile un esercizio collegiale del ministero die presbiteri.

In un tempo difficile come l’attuale, vivere il ministero in forma collegiale, riscoprire il presbiterio, diventa una grande risorsa. Le forme concrete possono essere diverse, sia in ordine all’affidamento degli incarichi pastorali, sia per quanto riguarda la sistemazione abitativa dei preti. Quello che importa è che nessuno si pensi solo e isolato dai confratelli.

 

Conclusione

Concludo questa meditazione con le parole di un libro, scritto una ventina d’anni fa, ma tuttora attuale. Dopo aver descritto i problemi, le sfide e le preoccupazioni del sacerdozio nel mondo di oggi, l’autore conclude con queste parole di speranza:

«[I sacerdoti] in mezzo a crisi senza precedenti, restano uomini senza illusioni, ma totalmente dipendenti dalla forza dello Spirito. Nella concretezza della loro situazione, la loro umiltà ispira libertà e coraggio. Il motivo più forte che induce a sperare è la loro fede nella potenza dello Spirito che sta sempre con loro, anche nelle ore più buie. La potenza dello Spirito ricorda loro che nulla può separarli dal perenne amore e dalla promessa salvifica di Dio, loro creatore. In questo perenne amore e in questa promessa salvifica essi sono impazienti di vedere il rinnovamento e la trasformazione del sacerdozio. Il volto del sacerdozio sta cambiando, ma dietro quel volto c’è sempre quello di Gesù Cristo nostro Salvatore». (Donald Cozzens Verso un nuovo volto del sacerdozio. Riflessione sulla crisi spirituale del sacerdote», Queriniana 2002, p.212)

 

+Pierantonio Pavanello