CONCELEBRAZIONE PER LA FESTA DI SAN BELLINO

La Chiesa va guardata prima di tutto dall’alto, con gli occhi innamorati di Dio. Chiediamoci se nella Chiesa partiamo da Dio, dal suo sguardo innamorato su di noi.
26-11-2022

Dopo l’interruzione degli ultimi due anni, dovuta alla pandemia, abbiamo oggi la grazia di tornare a celebrare la Festa del nostro Patrono, San Bellino presso la sua tomba. La gioia di questo ritrovarci assieme, sacerdoti, religiosi/e e laici, è offuscata dall’assenza dell’amato don Alessandro Cavallarin, che dopo una breve malattia, ci ha lasciato nello scorso mese di agosto. Mi piace pensare che dal cielo anche lui si unirà a questa nostra liturgia e assieme al nostro Patrono intercederà per la nostra Chiesa abbondanza di grazie e di benedizioni. Al termine di questa celebrazione ricorderemo, con l’intitolazione dello spazio verde attiguo a questa Basilica, un altro parroco di questa comunità, don Bruno Segala, che io non ho conosciuto personalmente ma di cui ho sentito molto parlare con accenti di grande stima e, oserei dire, di venerazione.

La distanza temporale (novecento anni!) unita alla scarsità e all’incertezza delle notizie documentali sulla sua vita e in particolare sulla sua morte, rischiano di relegare la figura del nostro Patrono nelle nebbie di un passato molto lontano. Quanto conosciamo di lui, in modo particolare in relazione al suo ministero di Vescovo di Padova, ci offre tuttavia la figura di un Pastore profondamente calato nelle vicende del suo tempo, un tempo in cui la vita ecclesiale era molto condizionata dal potere temporale, rappresentato dai vari signori che si contendevano il dominio della Città di Padova e del suo territorio e che cercavano di spogliare la Chiesa dei suoi beni e delle sue prerogative. La storia ci restituisce la figura di un Pastore che ha saputo indicare alla sua Chiesa la strada da percorrere in un tempo particolarmente difficile e tribolato.

Alla luce del suo esempio, vorrei anch’io questa mattina svolgere con Voi alcune considerazioni sul cammino che la nostra Chiesa è chiamata a percorrere in questo tempo. Non occorrono molte parole per dire che viviamo una situazione di grande stanchezza pastorale: la pandemia ha accelerato processi già in atto e ci troviamo, quasi da un momento all’altro, a fare i conti con una condizione di grande ristrettezza non solo sotto l’aspetto delle persone (i fedeli, i collaboratori, ecc.) ma anche dal punto di vista materiale (il pensiero va subito alla crisi energetica e alla difficoltà di riscaldare non solo le chiese, ma anche gli altri ambienti parrocchiali e le stesse canoniche). È una condizione che umanamente ci rattrista e ci deprime, ma che dobbiamo avere il coraggio di leggere in una prospettiva di fede. C’è qualcosa che sta morendo e da cui facciamo fatica a staccarci, ma, se noi ci crediamo, c’è anche qualcosa di nuovo che può nascere. Per vederlo abbiamo bisogno di uno sguardo sulla Chiesa che non sia mosso solo dai nostri sentimenti, ma che sia ispirato dalla Parola del Signore e dall’amore che proviamo per Lui. È lo «sguardo dall’alto» di cui parla Papa Francesco in un recente discorso: «Questo è il primo sguardo da avere sulla Chiesa, lo sguardo dall’alto. Sì, la Chiesa va guardata prima di tutto dall’alto, con gli occhi innamorati di Dio. Chiediamoci se nella Chiesa partiamo da Dio, dal suo sguardo innamorato su di noi. Sempre c’è la tentazione di partire dall’io piuttosto che da Dio, di mettere le nostre agende prima del Vangelo, di lasciarci trasportare dal vento della mondanità per inseguire le mode del tempo o di rigettare il tempo che la Provvidenza ci dona per volgerci indietro. Stiamo però attenti: sia il progressismo che si accoda al mondo, sia il tradizionalismo – o l’ “indietrismo” – che rimpiange un mondo passato, non sono prove d’amore, ma di infedeltà. Sono egoismi pelagiani, che antepongono i propri gusti e i propri piani all’amore che piace a Dio, quello semplice, umile e fedele che Gesù ha domandato a Pietro».

Questo «sguardo dall’alto» ci permette di comprendere che la situazione di crisi che la Chiesa vive oggi non è una maledizione o una persecuzione: è un dato di fatto. Negarla o cercare di sfuggirla non solo non è possibile, ma neppure ci è di aiuto. Vivere anche il tempo di crisi alla luce del Vangelo ci apre alla speranza: «Se troviamo di nuovo il coraggio e l’umiltà di dire ad alta voce che il tempo della crisi è un tempo dello Spirito, allora, anche davanti all’esperienza del buio, della debolezza, della fragilità, delle contraddizioni, dello smarrimento, non ci sentiremo più schiacciati, ma conserveremo costantemente un’intima fiducia che le cose stanno per assumere una nuova forma, scaturita esclusivamente dall’esperienza di una Grazia nascosta nel buio» (Papa Francesco, Discorso alla Curia Romana 21 dicembre 2020, n. 6).

Lo «sguardo dall’alto» diventa allora uno «sguardo in avanti», che si lascia alle spalle la nostalgia di ciò che è stato per protendersi verso la «chiesa che verrà»: è un’espressione che ho usato nel titolo della lettera pastorale per l’anno 2019-20 e che ritrovo sempre più frequentemente nella letteratura pastorale e teologica. Non siamo gli ultimi rappresentanti di una Chiesa che sta finendo, se ci crediamo e ci impegniamo possiamo diventare i costruttori della Chiesa del futuro, non un’«altra Chiesa», ma una «Chiesa diversa», cioè più semplice, più evangelica, più vicina allo stile di Gesù.

Per avere questo «sguardo in avanti» abbiamo bisogno di riconoscerci come figli che hanno bisogno del Padre, perché da soli non hanno le soluzioni ai tanti problemi che ci stanno davanti. La preghiera ci libererà dalle nostre paure e dalla necessità di controllare tutto e di avere subito dei risultati. Impareremo a fare quanto ci è possibile, senza angosciarci per quanto rimane senza risposta. Ci apriremo alla ricerca di cammini nuovi, mettendoci in ascolto degli uomini e delle donne di oggi e accettando il confronto con i nostri confratelli e con i cristiani di buona volontà. Se ci lasceremo guidare dallo Spirito arriveremo anche ad uscire per andare incontro a chi è indifferente e lontano. La «chiesa che verrà» non nascerà infatti da chi già frequenta le nostre comunità, ma da chi si lascerà contagiare dalla bellezza del Vangelo grazie alla nostra accoglienza e alla nostra testimonianza.

San Bellino interceda per la nostra Chiesa di Adria-Rovigo, perché non ci scoraggiamo, ma sappiamo con umiltà e fiducia percorrere la via di un rinnovamento profondo, accettando la povertà di persone e di mezzi materiali, sapendo che la nostra ricchezza e la nostra forza stanno nel servire insieme il Vangelo.