«Gli atteggiamenti spirituali necessari per una pastorale di evangelizzazione»

Solennità del Corpo e del Sangue del Signore. Meditazione per la giornata di santificazione
16-06-2023

Premessa

La via per realizzare la nostra santificazione passa attraverso la «conversione pastorale in chiave missionaria», che ci è proposta da papa Francesco ma, ancora di più, dal tempo che stiamo vivendo. Questa conversione pastorale esige da noi la capacità di vivere questo tempo non solamente come cronos (successione di eventi), ma come kairòs (occasione, opportunità). La santità oggi consiste nel vincere la tentazione dell’«indietrismo» (nostalgia del passato, guardare indietro, illudersi di poter ricostruire quanto è definitivamente passato) ma saper guardare avanti, lasciandosi condurre dallo Spirito per compiere la missione che il Signore affida alla sua Chiesa, che è sempre la stessa: annunciare il Vangelo.

In questi mesi a partire dalla messa crismale sto cercando di delineare che cosa comporta per la nostra Chiesa prendere sul serio la missione di evangelizzare, missione antica ma allo stesso tempo nuova e per noi inedita. La priorità pastorale deve spostarsi dalla cura pastorale all’annuncio. In passato la trasmissione della fede avveniva in una forma automatica, corrispondeva alla socializzazione, oggi non più perché il mondo è cambiato: è necessario che ci mettiamo davanti ad una umanità è fuori da un cammino di fede e deve ancora accogliere il Vangelo, anche se forse pensa di conoscerlo.

È importante prendere coscienza della nuova situazione perché solo così potremo incontrare gli uomini e le donne di oggi ed evitare che il nostro messaggio e la nostra testimonianza non colpiscano il bersaglio. La consapevolezza di chi sono i nostri interlocutori ci aiuta a superare la tristezza e la delusione: evangelizzare è un’opera che dà frutti sul lungo periodo, richiede tempo: è come il lavoro del contadino che prepara il terreno per la semina e poi dopo aver sparso il seme deve attender e perché germogli la pianta e alla fine porti frutto.

L’inefficacia di tante nostre iniziative pastorali non dipende proprio dal fatto che non abbiamo ancora preso coscienza della situazione reale delle persone a cui ci rivolgiamo?

Un primo atteggiamento: saper andare incontro e creare relazioni

Il primo movimento dell’evangelizzatore è andare incontro alle persone, entrare nella loro vita e creare relazioni umane. Il Vangelo passa da persona a persona. Gesù stesso per annunciare il Vangelo è andato incontro alle persone: si è lasciato incontrare o addirittura lui stesso è andato a cercare le persone. Il Vangelo ci riporta i discorsi di Gesù, ma anche e soprattutto i suoi incontri. Colpisce la sua accoglienza incondizionata delle persone. È a partire da un incontro, da una relazione che Gesù stabilisce, che si rende possibile l’annuncio del Vangelo. La buona notizia di Gesù raggiunge le persone dentro la loro vita: malattia, disabilità, disturbi spirituali (gli ossessi), disordini morali e affettivi. Una parola che non giudica, ma apre un cammino di conversione.

In una situazione di post-cristianità c’è bisogno di una forma di chiesa diversa, che non si limiti ad aspettare che le persone vengano, ma che va loro incontro entrando nella loro vita. Per questo la chiesa ha bisogno dei laici perché condividono più dei preti la vita di tutti gli altri.

Noi misuriamo la vitalità di una parrocchia dal numero di persone che la frequentano e che partecipano alle sue attività. Un altro criterio potrebbe essere quello di guardare alle relazioni significative che i cristiani di quella comunità sanno creare con le persone con cui si trovano a condividere le loro giornate (lavoro, tempo libero, attività sociali).

Come coltiviamo le relazioni con le persone? Ci lasciamo incontrare? Quali spazi di ascolto e di incontro con chi è lontano o indifferente cerchiamo di creare?

Secondo atteggiamento: saper ascoltare le domande di senso

L’incontro che prepara all’annuncio è un incontro che tocca la persona in profondità e fa emergere le domande di senso, quelle domande cioè su cui le persone giocano la loro felicità e la loro esistenza.

Un primo equivoco da evitare riguarda l’illusione che sia sufficiente dare dei servizi alle persone da un punto di vista umano e sociale perché si avvicino alla vita cristiana. Questo forse poteva funzionare in un’epoca di cristianità, dove era viva la c.d. «civiltà parrocchiale» (la parrocchia al centro di tutto: dallo sport al divertimento all’attività economica). Oggi invece è necessario che le persone si sentano prese sul serio singolarmente, ciascuna con la sua problematica, anche quando è scomoda o sconcertante. L’incontro profondo necessario per poter fare l’annuncio del Vangelo si ha quando la persona è aiutata a esprimere le domande decisive che si porta dentro e che tante volte non è mai riuscita a comunicare a nessuno e forse anche a diventarne consapevole. Nei Vangeli troviamo molti episodi in cui Gesù fa emergere nei suoi interlocutori la domanda di salvezza che c’è dentro di loro: ad es. nel dialogo con la Samaritana.

Bisogna stare attenti a non confondere le domande che noi abbiamo in mente, con le domande delle persone. Come è stato osservato da Giuliano Zanchi in un editoriale della Rivista del Clero Italiano, l’irrilevanza della predicazione e della catechesi dipende dall’ «accumulo di risposte senza domanda»: «Si deve forse confessare che l’aver agito come fornitori di “risposte” religiose precostituite abbia contribuito, anche all’interno della stessa vita cristiana a inaridire il terreno delle “domande” realmente palpitanti. Scarto inesorabile, che mi pare valere tanto per il catechismo dei bambini quanto per la predica della domenica che per la teologia di scuola. Evitare la loro fatale insignificanza richiede di frequentare con più umiltà e con maggiore fiducia quel piano dove la vita emerge come domanda, e “farlo durare, dargli spazio” (Italo Calvino)» (in Rivista del Clero Italiano CIII [2022] 668-669). In questa prospettiva è significativo che il «cammino sinodale» abbia dedicato due anni all’ascolto. Può sembrare paradossale ma per dire il Vangelo, bisogno prima stare in silenzio e ascoltare le persone, perché solo così può emergere quel desiderio di vita buona, in cui è possibile porre il seme della Parola.

In questo contesto vorrei segnalare che è facile presentare il Vangelo come risposta ad una domanda di consolazione. Questo è lo schema classico usato nel passato: la terra come «valle di lacrime», la religione come promessa di una ricompensa futura da guadagnare attraverso l’impegno e la serietà della vita. Oggi la terra non è più vista come «valle di lacrime», ma come «terra del benessere», Scrive Armando Matteo nel volume La Chiesa che verrà.

Viviamo un tempo di benessere, uno tsunami che ha cambiato il rapporto con la realtà e anche con Dio, ma quando preghiamo diciamo, per esempio nella Salve regina: «A te sospiriamo gementi e piangenti in questa valle di lacrime […] Mostraci dopo questo esilio il frutto del tuo grembo Gesù». La fede negli anni del dopo guerra, quando la gente era provata e aveva tante ferite aperte, aveva un terreno sul quale proporre una salvezza, una consolazione, un aiuto. Ma oggi da cosa abbiamo veramente bisogno di essere salvati? Il problema è l’obesità, i rifiuti, la noia, le trasgressioni. «Il tempo del godimento è un tempo di potenza, di una potenza di vita che può stordirci e ci stordisce. Papa Francesco parla di «egolatria, culto dell’io sul cui altare si sacrifica ogni cosa, com­presi gli affetti più cari».

Matteo descrive questa realtà: gli adulti, innamorati di sé stessi e della terra, che cercano in tutti i modi di restare giovani. I giovani che non hanno nessuna intenzione di diventare adulti assumendo i tratti propri dell’adulto: la generatività verso il mondo e la cura verso le persone. La giovinezza diventa quasi una religione (“fuori dalla giovinezza non c’è salvezza”).

«Cercate le cose di lassù» abbiamo letto nel giorno di Pasqua, ma l’uomo occidentale sta bene quaggiù. Rimpiangere il passato è anacronistico: si moriva prima, le donne erano casa, chiesa e bambini, l’oratorio era l’unico luogo di divertimento. Era fede questa? Era anche fede, ma non solo.

In questo quadro la religione interessa poco. Nessuna opposizione diretta, ma si può vivere bene senza Dio e senza Chiesa. Persistono i sacramenti, ma non hanno alla base una domanda di fede ma solo di celebrare dei riti di passaggio.

«La nostra mentalità pastorale ancora vigente presuppone un mondo e degli uomini e delle donne che semplicemente non ci sono più» (p. 88), perché: «È finito il tempo della fede come consolazione» (p. 90).

La domanda da cui partire allora non può essere la ricerca di consolazione, ma un’altra: «Oggi a minacciare la vita ordinaria degli uomini e delle donne delle “terre del benessere”, e dunque a spingerli all’invocazione di qualche salvezza, non sono più la povertà, la privazione, la frustrazione, realtà per le quali si è persa ogni attitudine e sensibilità e per le quali la religione cristiana – e forse in un contesto più ampio anche le altre religioni mondiali – aveva saputo trovare forme di contenimento e di collegamento con il proprio messaggio di salvezza. A minacciare quella vita – e dunque a spingere gli umani verso l’universo della religione – sembrano essere oggi piuttosto l’abbondanza, la pienezza, lo stordimento». La domanda di salvezza dell’uomo di oggi è come salvarsi da una potenza, da un godimento che lasciati a se stessi potrebbero rendere le persone sempre più chiuse e sostanzialmente insoddisfatti. Il Vangelo ha moltissimo da dire in una situazione come questa, ma va presentato come risposta alla domanda reale che gli uomini di oggi hanno. Qui si apre lo spazio per la pastorale della Chiesa che verrà.

Quale disponibilità interiore abbiamo per ascoltare le domande vere delle persone? Siamo curiosi di capire il modo di pensare degli uomini e delle donne di oggi o siamo preoccupati di misurare la distanza tra il loro modo di pensare e il nostro?

Terzo atteggiamento: saper accompagnare

Evangelizzare è un’azione che richiede tempo: il Vangelo ha bisogno di tempo per risuonare nei cuori (ricordiamo che il tempo non è nostro, ma è di Dio!).

L’atteggiamento di chi evangelizza è quello dell’agricoltore che attende con pazienza che il seme germogli e porti frutto. Questa considerazione ci porta a non giudicarci e a non lasciarci prendere dalla delusione se le nostre iniziative pastorali sembrano non avere frutto.

L’attesa non è passiva, è presenza e vicinanza gratuita e si realizza concretamente come accompagnamento, ovvero fare strada assieme», come Gesù con i discepoli di Emmaus.

L’evangelizzatore non è né un maestro, né un istruttore ma piuttosto un compagno che condivide la strada e che ti provoca e ti sostiene nel cammino e che allo stesso tempo si lascia provocare dalle tue domande. Non pretende di cambiarti né che tu diventi come lui, ma ti offre la sua esperienza di fede e la sua testimonianza. Sa aspettare i tuoi passi e soprattutto sa cogliere il momento favorevole per offrire la Parola del Vangelo in modo che incontri la vita. Evangelizzare non è fare una lezione sul Vangelo è far incontrare il Vangelo con la vita delle persone: per riuscire a farlo bisogno essere presenti, vicini, partecipi.

Con quali criteri misuriamo le nostre iniziative pastorali: sul risultato immediato o sui tempi lunghi della conversione? Siamo attenti ai momenti della vita in cui la persona diventa sensibile nei confronti del Vangelo?

Conclusione

Perché la Chiesa abbia un futuro ha bisogno di cristiani nuovi, cristiani che non vivano di nostalgia e di ricerca di consolazione, ma cristiani che sentano tutta la bellezza e la novità del Vangelo. La priorità pastorale è generare questi cristiani nuovi.

Seminario Vescovile, venerdì 16 giugno 2023